Per ben due volte nell’arco degli ultimi 15 anni milioni di italiani si
sono recati alle urne per dire no alla possibilità, per il nostro paese,
di sviluppare e produrre energianucleare per scopi civili. Questi stessi italiani, però, forse non sanno che custodiamo un vero e proprio arsenale nucleare: cosa tanto più assurda, considerando che nel 1975 Roma ha sottoscritto il trattato di non-proliferazione nucleare.
Eppure, sul nostro suolo si trovano poco meno di un centinaio di
testate atomiche. Per l’esattezza sono 90 le bombe di questo tipo, 50
nella base Usa
di Aviano nei pressi di Pordenone, e le restanti si trovano nella base
statunitense di Ghedi Torre nel Bresciano. Si tratta di armi tattiche,
di potenza e gittata minore rispetto a quelle strategiche: attualmente
potrebbero essere lanciate solo dagli F-16 o dai Tornado. La potenza è
variabile: da 0,3 a 170 chilotoni. Se utilizzate, genererebbero una
distruzione 900 volte superiore a quella prodotta su Nagasaki o
Hiroshima.
A breve, verso il 2016, queste testate lasceranno l’Italia per cedere poi il posto a nuove bombe, più
maneggevoli sarà avviato lo smantellamento degli attuali ordigni, sostituiti entro il 2019 con le nuove testate nucleari realizzate secondo gli ultimi
progetti approvati dal Pentagono. «I nuovi ordigni avranno una maggiore
precisione e ridurranno il fallout radioattivo conseguente
all’esplosione, mentre la carica nucleare
verrà riutilizzata, con una potenza massima nell’ordine dei 50
chilotoni». Nel frattempo, aggiunge Di Ernesto, inizieranno gli
addestramenti di nuove truppe specializzate, capaci di utilizzare queste
bombe atomiche. Facoltà che in Italia è attualmente prerogativa dei
militari statunitensi di stanza a Ghedi e Aviano, mentre ai nostri
soldati non è concesso l’uso di questi mezzi, anche se la clausola della
“doppia chiave” contenuta in alcuni documenti tra le parti prevede la
possibilità che queste bombe siano utilizzate anche dalle nostre forze
armate, ma solo dopo che gli Usa ne abbiano deciso l’impiego.
Ovviamente, aggiunge “La Notizia”, i politici italiani non hanno mai
ammesso o confermato la presenza di queste bombe nel Belpaese. Ma sono
stati gli stessi Usa
a confermarla in più di una occasione. Già l’11 luglio 1986, nel
silenzio generale, alcune agenzie di stampa ribatterono una notizia
apparsa sul “Washington Post” in cui si riferiva che il Pentagono aveva
appena annunciato il “piano Ws3”, il quale prevedeva che in 25 diverse
basi americane sparse per il mondo, tra cui quelle italiane di Ghedi,
Aviano e Rimini, sarebbero stati dislocati bombardieri atomici e ordigni
nucleari non più sotto gli hangar dei bombardieri, bensì all’interno di
speciali rifugi. Una nuova conferma arrivò nel 2005 quando la
declassificazione di un rapporto statunitense sulle armi nucleari
americane in Europa
accertò la presenza nel vecchio continente di circa 400 testate
nucleari, 90 delle quali custodite in Italia. Altra conferma, quella
giunta da Robert Norris, studioso del “Natural Resources Defense
Council” di Washington: esaminando documenti ufficiali, Norris segnalò
la presenza di una trentina di bombe ad Aviano, ma sottolineando che gran parte della documentazione
sull’Italia era coperta da “omissis”.
I primi ordigni nucleari, continua Di Ernesto, giunsero nel nostro paese
già nel 1956: erano atomiche le testate dei missili “Corporal” e
“Honest John” che equipagaggiavano il contingente Usa
di stanza nello Stivale. «Armi tattiche da impiegare, in caso di
attacco sovietico, contro i carri armati dell’Armata rossa». Negli anni
’60 e ’70 vennero dispiegati altri tipi di missili, nonché «bombe
atomiche di profondità destinate agli aerei della base di Sigonella per
la caccia di sottomarini sovietici nel Mediterraneo». Poi sono arrivate
le bombe attualmente collocate tra Ghedi e Aviano. Gli Usa
hanno portato in Italia questo tipo di armamenti grazie all’accordo
bilaterale denominato “Stone Ax”, siglato negli anni ’50 e poi rinnovato
tra il 2003 ed il 2004, nel clima di tensione successivo all’11
Settembre. Nel parlare di “accordi” il condizionale è d’obbligo, «visto
che nessun patto in tal senso è mai stato sottoposto a voto
parlamentare». Le uniche informazioni, conclude Di Ernesto, le dobbiamo a
ricercatori statunitensi come William Arkin, un ex analista
d’intelligence per l’esercito americano, che hanno diffuso tramite libri
e ricerche le notizie in loro possesso.
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