All’inizio c’è il mare. Non è un modo poetico di dire: è proprio l’inizio della storia. È settembre del 2000 e due trivelle della British Gas (BG Group) bucano il fondale davanti alla costa di Gaza. Trovano un giacimento che viene battezzato Gaza Marine. Non è un “super-campo” come quelli che fanno saltare i mercati mondiali, ma per l’economia palestinese sarebbe un tesoro: abbastanza gas per alimentare l’elettricità di Gaza e vendere l’eccedenza all’estero. Un piccolo passo verso indipendenza e dignità.
La licenza è in mano all’Autorità Palestinese, la tecnologia è di BG, e come partner locale c’è la CCC palestinese. Sembra l’inizio di un gioco a somma positiva. In fondo, il gas non ha passaporto, e se tutti guadagnano, perché fermarsi?
Poi arriva la realtà. Intifada, veto politici, rischio sicurezza. Il progetto si blocca subito. Il gas rimane là sotto, immobile come un segreto mal custodito.
Il freno lungo vent’anni
Nel 2007 Hamas prende il controllo della Striscia. E in Israele prevale una logica brutale: se il gas genera ricavi a Gaza, quei soldi potrebbero finire in mani sbagliate. Tradotto: niente sviluppo.
Il partner britannico arretra passo dopo passo. La BG viene assorbita da Shell, e nel 2018 Shell abbandona del tutto il progetto. Nel frattempo Israele sviluppa i propri giacimenti, Tamar e Leviathan, che diventano pilastri della sua economia energetica. Stesso mare, destini opposti.
La finestra che si apre (e si richiude)
Estate 2023: spiraglio. Il governo israeliano concede un via libera preliminare allo sviluppo di Gaza Marine, a patto di garanzie di sicurezza e con un modello operativo che coinvolge l’Autorità Palestinese ed Egitto. Nei memo circolano già ipotesi di tubi verso l’Egitto e di ricadute economiche anche per Israele.
Per un attimo sembra possibile. Poi arriva il 7 ottobre 2023. L’attacco di Hamas e la guerra chiudono la finestra di colpo.
Il gas in piena guerra
Mentre i bombardamenti devastano Gaza, Israele assegna 12 nuove licenze offshore a sei compagnie, tra cui BP ed ENI. Ufficialmente si tratta di blocchi nelle acque israeliane. Ma ONG palestinesi e giuristi internazionali sollevano il sospetto che i confini economici possano “sporcarsi”, cioè che l’esplorazione finisca per toccare anche l’area marittima palestinese.
Le ONG parlano di “pillage”, cioè saccheggio di risorse in territorio occupato. Israele nega. I comunicati ufficiali restano sobri, ma l’odore del gas — in senso letterale e figurato — aleggia anche sopra i macelli della guerra.
Il movente energetico: indizi, non prove
Qui le cose diventano scivolose. Molti analisti da anni avvertono che il gas pesa nelle decisioni strategiche. È semplice: se Hamas controlla Gaza, nessuna multinazionale investirà miliardi in una piattaforma a poche decine di chilometri da una zona bombardabile. È un’ovvietà industriale.
Da qui il sillogismo: eliminare Hamas e, de facto, ridurre la presenza civile nella Striscia, crea le condizioni per un controllo stabile del mare. E con esso, per lo sfruttamento del gas.
Ma attenzione: tra “indizi” e “prove” c’è una differenza sostanziale. Non ci sono documenti ufficiali che dicano “facciamo la guerra per prenderci il gas”. Ci sono però editoriali e dossier che mettono la questione sul tavolo. Middle East Eye, The Guardian, The Ecologist: tutti hanno pubblicato analisi che suggeriscono un legame stretto tra conflitto e risorse energetiche.
Il paradosso Hamas
Ed eccoci alla domanda spinosa: l’attacco del 7 ottobre ha, di fatto, agevolato Israele?
I fatti nudi sono tre:
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Prima della guerra (giugno 2023) c’era un fragile percorso per sbloccare Gaza Marine sotto ombrello egiziano-palestinese, con assenso condizionato di Israele.
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Dopo l’attacco di Hamas, quel percorso salta e Israele accelera sul proprio fronte energetico.
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ONG e giuristi contestano la legalità delle esplorazioni, temendo un travalicamento verso le acque palestinesi.
Hamas ha rivendicato motivazioni politico-religiose, ma il risultato oggettivo è che la governance di Gaza è stata disarticolata. E se domani il controllo marittimo fosse più saldo nelle mani israeliane o di un soggetto terzo, il rischio-paese per gli investitori scenderebbe di colpo.
Il paradosso è evidente: Hamas ha aperto una strada che va contro i suoi stessi obiettivi.
Il piano di pace di Trump
In questo contesto entra in scena Donald Trump. Il suo recente piano di pace per Gaza, presentato come una via d’uscita dal conflitto, si muove in un terreno scivoloso.
Trump parla di ricostruzione, di investimenti, di “deal of the century” applicato a Gaza: soldi del Golfo, stabilità negoziata, sviluppo economico. Ma resta un punto sospeso: chi controllerà davvero le risorse energetiche?
Se la stabilità arriva sotto condizioni che escludono Hamas e riducono drasticamente la capacità decisionale palestinese, allora Gaza Marine rischia di diventare la moneta di scambio di un “peace deal” costruito più sugli interessi energetici che sulla giustizia politica.
La domanda è legittima: la pace proposta è davvero per i civili palestinesi o per i mercati energetici regionali?
Energia e geopolitica: il legame inevitabile
Non bisogna essere complottisti per riconoscere che energia e geopolitica sono intrecciate. Dal petrolio in Iraq al gas nel Mediterraneo orientale, la storia è piena di conflitti in cui le risorse naturali giocano un ruolo silenzioso ma cruciale.
Gaza Marine, con i suoi miliardi di metri cubi di gas, non fa eccezione. È troppo prezioso per non entrare nei calcoli strategici.
Le domande che restano
Ecco le domande che rimangono sul tavolo:
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Senza guerra, Gaza Marine avrebbe mai potuto essere sviluppato sotto una formula di cooperazione egiziano-palestinese?
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L’attacco del 7 ottobre è stato solo un atto di resistenza cieca, o ha avuto anche l’effetto collaterale di facilitare Israele sul fronte energetico?
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Il piano di pace di Trump è un’occasione per ricostruire Gaza o un modo per legittimare un futuro sfruttamento del gas sotto un nuovo schema di controllo?
Epilogo aperto
Oggi Gaza Marine resta un tesoro sommerso. Se nei prossimi anni vedremo ripartire sondaggi sismici, gare d’appalto per piattaforme, gasdotti verso l’Egitto e contratti di vendita, sarà il segnale che la “stabilità” — imposta o negoziata — è tornata.
Chi controllerà quell’orizzonte controllerà anche la narrazione. Per i palestinesi potrebbe essere riscatto economico, per Israele normalizzazione energetica, per l’Europa diversificazione delle forniture.
Per ora, la storia non è chiusa. E come tutte le storie in cui entrano il gas, il potere e la guerra, ci lascia con più domande che risposte.
Fonti principali
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Reuters — “Via libera preliminare israeliano allo sviluppo di Gaza Marine” (18 giugno 2023)
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Reuters — “Shell lascia Gaza Marine” (5 marzo 2018)
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Wikipedia — “Natural gas in the Gaza Strip”
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Reuters/Yahoo Finance — “Israele assegna 12 licenze offshore durante il conflitto” (29 ottobre 2023)
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Al-Haq / Adalah — Briefing legali su licenze israeliane e rischio “pillage” (febbraio 2024)
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The Guardian — Analisi storica sul nesso gas/Gaza (2014)
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The Ecologist — Dossier su gas e conflitto (2014)
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Middle East Eye — Mousavian, “La guerra come spinta a confiscare il gas di Gaza” (2023–2024)