Uno spettro si aggira sulle banche centrali, ma non è il Cigno Nero dell'economia mondiale: è la bolla speculativa dei Bitcoin, il Brutto Anatroccolo del mercato valutario. In Italia se ne parla poco, il concetto di moneta digitale è ancora fermo alle carte di credito, ma nella comunità finanziaria internazionale e tra le autorità di vigilanza, la crescita stratosferica, rapida e sostanzialmente incontrollata della «cripto-valuta» sintetica che si spende sul web, non è passata inosservata.
Anche perché erano più di vent’anni, dai tempi della bolla di internet, che il mercato non si lanciava così a capofitto su un asset finanziario senza storia, dal futuro ancora indimostrabile e da un passato più opaco del presente.
Bitcoin non è Google, Apple o Facebook, ma chi giudica speculative le quotazioni dei primi protagonisti dell’era digitale, dovrebbe dare un’occhiata ai grafici di Bitcoin: chi altro ha mai guadagnato il 274mila per cento in appena 96 mesi di scambi? Quali prospettive di reddito e sviluppo sono mai nascoste nel futuro di una valuta elettronica senza volto e senza storia, di cui mezzo mondo conosce a malapena solo il nome? E non solo quello della moneta: il mondo che gira intorno ai Bitcoin è talmente opaco, che dopo nove anni di caccia all’uomo tra il Giappone, gli Stati Uniti, l’Europa e l’Australia, non è ancora chiaro chi abbia inventato i Bitcoin. Satoshi Nakamoto, il presunto ingegnere di Tokyo che nel 2008 ne rivendicò la paternità, si è scoperto ora che non esiste affatto, né in Giappone né sul web. Vero è che uscire allo scoperto non conviene più nemmeno a lui: le autorità di vigilanza finanziaria e i servizi di sicurezza asiatici e australiani vorrebbero infatti sapere dal signor Sakamoto - chiunque esso sia - dove abbia nascosto il «Tulip Trust», un fondo fiduciario offshore in cui si dice da 10 anni che l’ideatore di Bitcoin abbia versato un milione di Bitcoin, che nel 2009 costava appena 40 centesimi. Se quel denaro elettronico fosse convertito oggi in valuta reale, frutterebbe al fortunato inventore oltre un miliardo e 100 milioni di dollari americani: il valore di partenza era di poco superiore ai 400mila dollari.
Ma fosse tutto qui, il mistero di Bitcoin sarebbe anche divertente. Ma nella realtà dei fatti, si tratta di una sfida ad alto rischio non solo per gli specialisti della speculazione finanziaria, ma soprattutto per chi sta sul fronte opposto: banche centrali e autorità di vigilanza. Dopo aver speso 12.300 miliardi di dollari per proteggere dollaro, euro e yen dalla crisi bancaria globale e del debito europeo, dal caso Grexit e dallo shock di Brexit, dall’incognita Trump e dalla volatilità crescente dei cambi valutari globali, la «Santa Alleanza» delle potenze monetarie sembra ora prepararsi allo scontro con la «Jihad valutaria» del nuovo populismo finanziario: scudi e bazooka sono già puntati contro l’avanzata dei Bitcoin. E almeno sulla carta, la sfida tra moneta reale e valuta digitale sembra avere un esito scontato: Bitcoin ha munizioni per circa 18 miliardi di dollari, a tanto ammonta la capitalizzazione mondiale della cripto-valuta, mentre la potenza di fuoco a disposizione delle banche centrali si è dimostrata finora illimitata.
Ma come in natura, anche sui mercati finanziari non sono le dimensioni ma la forza a garantire la sopravvivenza. E la forza dei Bitcoin, malgrado la giovane età, è quella di un lottatore di Sumo. Sembra un paradosso, ma il fatto che le grandi potenze mondiali continuino a scontrarsi ad ogni occasione sulle «manipolazioni» dei tassi di cambio tra dollaro, euro e yuan, senza poi accorgersi che il vero nemico dell’ordine valutario non ha passaporto o confini, rappresenta la peggiore fragilità del fronte «lealista»: solo nell’ultimo anno, Bitcoin ha guadagnato oltre l’80% nel cambio sul dollaro, il 70% sull’euro e addirittura il 140% sullo yuan cinese. Se il ritmo con cambia, qualcuno rischia davvero di farsi male: il solo fatto che le quotazioni di Bitcoin salgano oggi in parallelo con quelle dell’oro, non è certamente un buon segno per Fed e Bce. Nella mentalità “distorta” dei mercati finanziari, del resto, ogni esitazione di governi e banche centrali nella battaglia contro il nuovo disordine mondiale è spazio aperto per nuova speculazione: a Wall Street, per esempio, non importa assolutamente nulla che la Cina abbia quasi commissariato le piattaforme di scambi in Bitcoin a Shanghai e Hong Kong, o che gli Emirati Arabi Uniti abbiano appena trasformato in reato penale il possesso e l’uso di qualsiasi valuta digitale perché il boom dei Bitcoin faceva da copertura alla fuga dei capitali dal Golfo. A Wall Street, l’unica cosa che interessa è aggiudicarsi una fetta del business miliardario di Bitcoin prima che qualcuno reagisca e faccia ordine: oggi l’obiettivo prioritario è ottenere il via libera della Sec alla quotazione del primo Etf in Bitcoin a livello mondiale: in pratica, sarà il primo derivato valutario sintetico che avrà come asset sottostante una valuta che nella realtà neppure esiste. Se la nuova era della finanza digitale comincia così, il resto è quasi meglio non saperlo.
Anche se l’uso del denaro elettronico o digitale è entrato da anni nelle abitudini di pagamento di centinaia di milioni di persone - conti correnti on-line, carte di pagamento e di credito, portafogli elettronici (electronic wallets) per cellulari e iPad sono ormai più diffusi degli assegni - l’invenzione di Bitcoin sembra insomma fatta apposta non solo per spodestare il monopolio bancario negli strumenti di pagamento elettronici e nelle transazioni commerciali internazionali via web, ma anche il sistema valutario del dopo gold-standard: e con questi, l’intera rete di sicurezza creata dai governi e dalle istituzioni internazionali contro il riciclaggio di denaro, l’evasione fiscale e l’esportazione illecita di capitali.
Anche se lo scenario è fortunatamente lontano, la velocità del cambiamento nello scenario geopolitico e soprattutto l’impatto delle nuove tecnologie digitali sulle regole del gioco nei mercati finanziari sta aumentando in modo esponenziale. E per le autorità monetarie, gestire il passaggio tra vecchi e nuovi modelli organizzativi della vigilanza non è sicuramente facile, soprattutto per le diffidenze crescenti tra governi e la confusione nelle relazioni politiche internazionali. Ma la percezione che hanno a Francoforte, Londra, Washington o Pechino dello tsunami Bitcoin è già chiarissima: oltre un certo limite, il rischio concreto delle istituzioni monetarie è perdere il controllo su emissione, circolazione e valore della moneta. Esagerare i pericoli sistemici per mercati e valute è un po’ una caratteristica globale in questi tempi, ma in questo caso lo stato d’allarme su Bitcoin è logico e concreto.
L’idea alla base dei Bitcoin è stata infatti creare una valuta digitale che fosse indipendente da ogni tipo di autorità o governo nazionale e che permettesse di effettuare pagamenti elettronici a livello globale senza controlli, in maniera istantanea e soprattutto anonima. Tutte cose interessanti per lo sviluppo del commercio digitale globale non agganciato all’altalena dei tassi di cambio e dei tassi di interesse. Ma anche innovazioni da maneggiare con cautela. Anonimato e non tracciabilità sono due caratteristiche che trasformano un mercato in un far west, in una prateria per evasori, riciclatori e bande di criminali che vogliono spostare capitali illeciti senza lasciare traccia, odore o impronta.
Un po’ a sorpresa, la prima istituzione monetaria a capire i rischi nascosti di questa unione tra tecnologia e furbizia, è stata la Bce: da tre anni, una task force di esperti è stata incaricata da Mario Draghi di tenere sotto controllo la penetrazione dei Bitcoin nei confini dell’Eurozona. Nell’ultimo rapporto del 2015 consegnato al direttorato di Francoforte (“Virtual currency schemes – a further analysis”), Bitcoin figura a sopresa come «la più grande minaccia potenziale per la politica monetaria e la stabilità dei prezzi, per la stabilità finanziaria e la vigilanza prudenziale». Anche per un neofita della vigilanza, più che un elenco di rischi sembra una dichiarazione di guerra.
«Per ora la diffusione di Bitcoin è marginale - è scritto nel documento della Bce - ma è fondamentale tenere sotto controllo il volume dei Bitcoin emessi, la loro connessione con l’economia reale, il volume delle transazioni e la conversione dei Bitcoin in valute reali: il monitoraggio e la disincentivazione degli accordi tra sistema bancario vigilato e gestori della valuta elettronica è fortemente raccomandato». Facile a dirsi, ma non a farsi. Non solo perché intorno a Bitcoin si sono “materializzate” in poco tempo altre 500 piattaforme monetarie digitali di pagamento, ma anche perché è difficile rivendicare controllo e vigilanza su una moneta che di fatto non esiste: «Bitcoin - spiega la Bce - funziona senza un’istanza di controllo centralizzata quale una banca centrale: da una punto di vista giuridico, quindi, non è considerata una moneta».
O almeno, non lo è per i modelli tradizionali di sistema monetario. Nell’era digitale, è il mercato che decide se una cripto-valuta va considerata un algoritmo complesso o una vera moneta: Bitcoin ha già oggi 500mila conti individuali attivi da cui si originano 100mila transazioni al giorno, con un totale accumulato di 198 milioni di operazioni effettuate. Come si definisce una realtà di questo tipo? La reale pericolosità per le banche, che dopo lo shadow banking rischiano ora un’ulteriore disintermediazione, e altrettanto temibile per chi stampa denaro.
In Italia se ne parla poco a livello ufficiale, ma non tra le istituzioni. Banca d’Italia e Consob hanno messo sotto stretta sorveglianza l’intero mercato della valuta digitale monitorando soprattutto il suo uso negli acquisti di beni e servizi: la diffidenza degli italiani nell’uso della carta di credito, in questo senso, non sembra estendersi al portafoglio dei Bitcoin.
«La Banca d’Italia - abbiamo appreso dalla Bce - ha emanato già dal 2015 un allarme della vigilanza sull’uso e la diffusione delle valute virtuali». Lo stesso direttorato di supervisione (Supervisory Directorate), inoltre, ha recepito e rilanciato la raccomandazione della European Banking Authority, l’autorità di controllo sulle banche, senza usare mezzi termini: «Si deve scoraggiare in ogni modo - questo il testo della raccomandazione alle banche italiane - l’acquisto, il possesso o la vendita di Bitcoin tra banche commerciali e tra intermediari finanziari residenti in Italia». Di tenore analogo è un documento riservato di un’authority nazionale di cui si conosce in realtà ben poco: la Italian Financial Intelligence Unit. Sulla carta, dovrebbe essere l’interfaccia nazionale della Financial Action Task Force (Fatf), il nucleo investigativo internazionale anti-riclaggio creato a Parigi nel 1989 su iniziativa del G7. «La task force italiana - spiega ancora la Bce - ha diffuso una circolare in cui mette in guardia le banche sull’uso anomalo delle monete virtuali: gli intermediari devono segnalare immediatamente le operazioni sospette in Bitcoin e le transazioni che potrebbero nascondere non solo il riciclaggio di denaro, ma anche il finanziamento di gruppi terroristici».
Lo schema operativo che preoccupa le istituzioni monetarie e le loro emanazioni è semplice quanto efficace. Soprattutto quando le transazioni sono fittizie o illegali. Per manovrare i Bitcoin non serve la patente e neppure una laurea. Il primo passo è acquistare e scaricare sul computer la «App» di Bitcoin e poi aprire un conto nominativo individuale su una delle piattaforme digitali di scambio. Il secondo passo, è trasferire il denaro reale dal proprio conto bancario a quello aperto in Bitcoin, operazione non monitorata in quanto originata su piattaforme nazionali. E qui nasce il problema. Non potendo più essere tracciato (non c’è più intermediario bancario vigilato a registrare le transazioni), il titolare del conto trasferisce indisturbato il patrimonio in Bitcoin su un altro conto personale (aperto negli Usa o in Europa) intestato a parenti o soggetti terzi compiacenti o addirittura complici: a operazione avvenuta, i Bitcoin cambiano paese di residenza e giurisdizione, lasciando al proprietario la possibilità di scegliere il momento giusto per spenderli o cambiarli in altra valuta. Alla fine della giostra, i capitali hanno preso il volo con destinazione ignota, e l’intera operazione non lascia traccia né sui radar delle autorità finanziarie n di quelli dell’antiriciclaggio o di controllo sull’esportazione di capitali. Prove certe sulla relazione tra le distorsioni e le oscillazioni di prezzo dei Bitcoin e le manipolazioni valutarie e finanziarie che si consumano dietro la valuta digitale ancora non esistono. Per ora solo le autorità di vigilanza cinesi hanno trovato una correlazione tra il boom dei Bitcoin e la fuga di capitali dalla Cina: il balzo del volume delle transazioni in Bitcoin e la caduta dello yuan hanno un comune denominatore nelle tensioni finanziarie internazionali che generalmente alzano tensione e polverone tra Governi e sul mercato dei cambi.
Il problema, è che a fare le spese di queste dinamiche opache e speculative non è solo la credibilità delle istituzioni, ma anche il piccolo investitore che in buona fede compra Bitcoin pensando al futuro radioso della tecnologia finanziaria. Ma senza regole appropriate, reale o digitale che sia fa poca differenza: è solo gioco d’azzardo 4.0.