di Giorgio Vitangeli
Centocinquantadue miliardi di dollari o, se preferite, centodieci miliardi di euro. E non è del tutto chiaro di chi siano.
Una somma enorme che, pur con qualche oscillazione, cresce tendenzialmente, anno dopo anno. Poco più di un decennio or sono, nel 1999 all’esordio dell’euro, l’ammontare era di 22 miliardi di euro; all’inizio dell’anno scorso erano 83 miliardi. Oggi si avvia a superare anche i 110 miliardi. Stiamo parlando delle riserve auree della Banca d’Italia: 2.451,1 tonnellate di lingotti d’oro, di cui circa un terzo (vedi “la Finanza” di novembre-dicembre 2010) sono custodite nei sotterranei della Federal Reserve, a New York; ulteriori piccole quote sono vincolate alla nostra partecipazione alla la Banca dei Regolamenti Internazionali ed alla BCE, la parte residua, cioè poco meno di due terzi, è conservata a Roma, nei sotterranei della Banca d’Italia.
Dire che non si sa bene di chi sia quella montagna d’oro può sembrare assurdo. Già il modo in cui la si definisce- riserve auree della Banca d’Italia – indicherebbe che quell’oro è della Banca d’Italia. Tant’è che il loro valore figura all’attivo del suo stato patrimoniale.
Ma quando, nel 2009, l’allora ministro dell’economia Tremonti, alla disperata ricerca di risorse, pensò di tassare “una tantum” le grandi plusvalenze che la Banca d’Italia aveva realizzato sulle riserve auree, la BCE avanzò tutta una serie di obiezioni e tra l’altro Jean Claude Trichet, che presiedeva allora la Banca Centrale Europea, osservò: “Siamo sicuri che l’oro sia della Banca d’Italia, e non del popolo italiano?”.
Trichet disse “popolo” per non dire Stato, che sarebbe stata la locuzione più precisa. Ed era evidente che se le riserve auree sono dello Stato, e non della Banca d’Italia, lo Stato che vuol tassare sé stesso sarebbe stata cosa assurda.
Mario Draghi, che allora era governatore, confermò deciso, evitando però anche lui di usare la parola Stato,che in economia da tempo è parola politicamente scorretta. “Le riserve auree- affermò infatti – appartengono agli italiani, e non a via Nazionale”. Paradossalmente – Cicero pro domo sua- evitava così di pagare la tassa sulla plusvalenze negando che l’oro fosse suo, cioè della Banca d’Italia.
La realtà giuridica: un “pasticciaccio brutto”
Capitolo chiuso, dunque? Con tutto il rispetto per il dubbio di Trichet e per la convinzione di Draghi, essi hanno espresso opinioni personali. Autorevoli e lodevoli fin che si vuole, ma sempre opinioni personali. La realtà giuridica, l’unica che conta, sembra invece alquanto più ambigua. Anzi, per essere precisi, è una sorta di “pasticciaccio brutto”, che ha la sua origine nella privatizzazione delle banche, un tempo pubbliche o emanazioni di istituzioni pubbliche locali, partecipanti al capitale della Banca d’Italia, il cui Statuto allora specificava appunto con estrema chiarezza all’art.1 che “la Banca d’Italia è Istituto di diritto pubblico”, ed all’art 2 che le sue quote “non possono essere possedute se non da Casse di Risparmio (che a quel tempo erano emanazione di Istituzioni pubbliche locali), da Istituti di credito e da banche di diritto pubblico, da Istituti di previdenza (anch’essi pubblici), e da Istituti di assicurazione. Insomma: il carattere pubblico della Banca d’Italia, sia per le funzioni svolte che per la natura dei suoi soci partecipanti era fuori discussione.
Ma con la privatizzazione delle banche quel panorama è radicalmente mutato. La logica ed il buon senso avrebbe voluto che dalla privatizzazione fossero esplicitamente escluse le quote di partecipazione al capitale della Banca d’Italia, che per legge non potevano che essere detenute da Istituzioni economiche di natura pubblica. Ma ciò non è stato fatto: di qui l’attuale “pasticciaccio brutto” di una Banca d’Italia, che ancora viene dichiarato “Istituto di diritto pubblico”, i cui soci però sono nella stragrande maggioranza società private, cui ora – piaccia o no – a termini di legge appartiene oltre al suo capitale anche il suo patrimonio, immobili, e preziose collezioni d’arte e di monete comprese.
E le riserve auree e valutarie? La legge e lo Statuto nulla dicono.
Una situazione incongrua e per molti aspetti nebulosa e contraddittoria, che la reiterata modifica dello Statuto ha cercato vanamente di rabberciare, inserendo prima (Statuto del 2002) nell’elenco di coloro che possono detenere quote della Banca d’Italia le “società per azioni esercenti attività bancaria”, ed infine (Statuto del 2006) abolendo del tutto l’elenco e riconoscendo semplicemente (e lapalissianamente…) che la titolarità delle quote della Banca d’Italia “è disciplinata dalla legge”.
La quale legge, per la verità, l’anno precedente (legge 262 del 28-12-2005, promossa dal ministro Tremonti), nel tentativo di sanare l’evidente stortura che le privatizzazioni avevano determinato nella titolarità del capitale (e del patrimonio…) della Banca d’Italia, all’art. 10 sancisce testualmente: “Con regolamento da adottare ai sensi dell’art.17 della legge 23 agosto 1988 n.400 è ridefinito l’assetto proprietario della Banca d’Italia e sono disciplinate le modalità di trasferimento, entro tre anni dall’entrata in vigore della presente legge, delle quote di partecipazione al capitale della Banca d’Italia in possesso di soggetti diversi dallo Stato o da altri Enti pubblici”.
Dunque: le quote in mano a soggetti privati entro tre anni avrebbero dovuto essere trasferite allo Stato o ad altri Enti pubblici. Di anni da allora ne sono passati quasi sette, ma per quanto riguarda la titolarità delle quote della Banca d’Italia, nulla è cambiato. E’ stata disciplinata, con lo Statuto del 2006, non la proprietà, ma la eventuale cessione delle quote, stabilendo che essa avviene su proposta del Direttorio della Banca d’Italia e previo consenso del suo Consiglio Superiore “nel rispetto dell’autonomia e dell’indipendenza dell’Istituto e di una equilibrata distribuzione”. Raccomandazione, quest’ultima, che suona curiosa e involontariamente umoristica, considerato che due banche (Intesa e Unicredit) da sole hanno la maggioranza assoluta del capitale della Banca d’Italia.
Su patrimonio e riserve crescono gli appetiti
Per tentare di capire meglio quale sia la situazione giuridica in cui si trova oggi la nostra Banca Centrale, e soprattutto di chi sia legittimamente il suo patrimonio, ed in particolare le riserve auree, abbiamo sottoposto il quesito ad un giurista: il prof. Mario Esposito professore straordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università del Salento,e nel prossimo numero de “la Finanza” ne pubblicheremo l’intervento.
Noi, da giornalisti, ci limitiamo a sottolineare alcuni recenti fatti significativi, che indicano chiaramente che sul patrimonio della Banca d’Italia da un lato e sulle sue riserve auree dall’altro si sono fatti manifesti espliciti appetiti.
Per quanto riguarda il patrimonio l’ultimo episodio è quello della tormentata cessione da parte del Monte dei Paschi alla Cassa di Risparmio di Asti della sua quota del 60,4% di Biverbanca, essendo il restante 40% circa in mano alle Fondazioni di Biella e di Vercelli. A bloccare per qualche tempo l’operazione era proprio la quota di Bankitalia detenuta da Biverbanca, eredità delle vecchie Casse di Risparmio di Biella e di Vercelli, dalla cui fusione appunto è nata Biverbanca, che ha in bilancio questo 2,1% di Bankitalia per 9 milioni di euro, mentre Montepaschi, che a sua volta detiene direttamente una quota del 2,5%, consolida il tutto in bilancio per complessivi 700 milioni. E già l’incongruenza tra le due cifre fa pensare.
La proposta originaria del Monte dei Paschi era quella di dividere, proporzionalmente, la quota di Bankitalia posseduta da Biverbanca (per cui la banca senese avrebbe potuto disporre del 60%) ma l’opposizione delle fondazioni di Biella e di Vercelli è stata inflessibile.
“Non possiamo dimenticare- sottolineava il presidente della Fondazione di Biella- che la quota in Bankitalia rappresenta un asset di assoluto rilievo, soprattutto nel caso in cui, come sembra, nei prossimi mesi agli azionisti verrà consentito di rivalutare ai valori reali le quote che posseggono”. La rivalutazione , secondo ipotesi circolate, potrebbe aggirarsi tra i cinque ed i dieci miliardi di euro. “Da sola questa quota -ha osservato Luigi Squillario, presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Biella-consentirebbe alla banca di raddoppiare il proprio patrimonio”.
E veniamo così al punto cruciale. Per rispettare i parametri patrimoniali quasi tutte le banche italiane hanno sete di nuovo capitale, che oggi scarseggia o latita. A ventilare l’idea che per rafforzare la loro base patrimoniale le banche, socie partecipanti della Banca d’Italia, avrebbero potuto rivalutare quelle loro quote è stato per primo Giovanni Berneschi, il quale lo scorso giugno al Congresso nazionale dell’Acri, a Palermo, aveva avanzato l’idea che la Banca d’Italia, per aiutare le banche sue socie, facendo leva sulle riserve disponibili avrebbe potuto varare un aumento di capitale a titolo gratuito, per un importo appunto oscillante tra i 5 ed i 10 miliardi di euro.
Sembrava una proposta un po’ peregrina. E invece, a quanto pare, sta facendo strada. Infatti è contemplando anche questa eventualità che Montepaschi ha trovato l’accordo con la Cassa di Risparmio di Asti, uscendo dallo stallo in cui l’avevano posta le Fondazioni di Biella e Vercelli. Accantonata infatti l’ipotesi di una scissione della quota di Bankitalia posseduta da Biverbanca, l’accordo con la Cassa di Risparmio di Asti prevede che se nei prossimi dieci anni sarà possibile valorizzare la quota di Bankitalia e inserirla nel patrimonio di vigilanza, il prezzo della cessione sarà integrato sino ad un massimo di cento milioni; se l’ipotesi si realizzerà entro tre anni, l’integrazione di prezzo potrà essere sostituita dal trasferimento di quote del capitale di Bankitalia.
Il boccone più grosso: le riserve auree
Ma veniamo ora al boccone di gran lunga più grosso: quello delle riserve auree. In fatto di oro delle riserve l’Italia è una potenza di primissimo piano: escludendo il Fondo Monetario Internazionale, siamo al terzo posto nel mondo, dopo gli Stati Uniti (8.133,5 tonnellate) e la Germania (3.401 tonnellate), e un soffio sopra la Francia (2.435,4 tonnellate). Cina e Svizzera superano di poco le mille tonnellate; Russia e Giappone sono alquanto al disotto di mille tonnellate. L’Inghilterra con 310,3 tonnellate ha poco più di un decimo delle riserve auree dell’Italia. Dei Paesi emergenti (BRICS), a parte la Russia nella graduatoria dei primi 25 Paesi figura solo l’India, con 557,7 tonnellate. E quanto infine ai Paesi meridionali dell’area dell’euro, martoriati dal debito e dalla speculazione internazionale, il Portogallo ha 382,5 tonnellate; la Spagna 281,6; la Grecia non figura nella graduatoria.
Abbiamo sottolineato questi confronti, tratti dalle statistiche più recenti del Fondo Monetario Internazionale, per sottolineare il ruolo di assoluta rilevanza che ha l’Italia quanto a riserve di oro, e un misto d’irritazione e di cupidigia che ciò suscita in taluni che vorrebbero assimilare l’Italia ai Paesi sotto attacco dell’area meridionale dell’euro. Un bene, l’oro, che l’ideologia dominante di questo ultimo mezzo secolo, d’ispirazione anglosassone, avrebbe voluto fosse demonetizzato, ma che nei fatti si è invece incessantemente rivalutato, dai 35 dollari l’oncia del prezzo fisso in vigore sino all’inizio degli anni settanta ai quasi 1.800 di oggi. E che nel disordine monetario internazionale e nella crescente sfiducia per le monete carta ha rappresentato e rappresenta uno dei pochi ancoraggi sicuri. Non a caso l’Opec, pur continuando ad esprimere in dollari il prezzo del petrolio, da tempo di fatto lo ha ancorato al prezzo dell’oro. E non a caso, quando nel 1976, nel pieno di una nostra crisi economica, la Bundesbank prestò due miliardi di dollari al governo italiano, volle in pegno 540 tonnellate di oro. Oro che di dollari oggi ne vale più di 29 miliardi e che il governatore Baffi, appena possibile, si affrettò a disimpegnare e di cui il governatore Fazio non volle vendere neppure un grammo.
E non a caso infine, benché per decenni fosse “politicamente scorretto” (cioè sgradito agli Stati Uniti…), da più parti si torna ad ipotizzare il ritorno ad una qualche forma di “gold standard”, cioè il ritorno a pieno titolo dell’oro quale punto di riferimento (e di garanzia…) di una moneta internazionale.
La nuova corsa all’oro delle Banche centrali
Ma ancor più delle proposte e delle intenzioni, valgono i fatti. Non pochi Paesi stanno cercando, riservatamente ma quasi affannosamente, di ricostituire una forte riserva aurea. Innanzi a tutti la Cina, la cui Banca Centrale sta attuando una aggressiva politica di acquisto di oro, con l’obbiettivo, secondo alcuni autorevoli osservatori, di sestuplicarle nel giro di pochissimi anni, portando le riserve auree a seimila tonnellate, a supporto di una futura convertibilità dello yuan e di un suo ruolo nel sistema monetario internazionale.
C’è da ricordare che la Cina, con una produzione annua salita a 314 tonnellate, è divenuta anche il primo Paese produttore, seguita dall’Australia (216 tonnellate) e da Nord America, Russia e Sud Africa, che hanno una produzione annua di poco superiore alle 200 tonnellate ciascuna.
Secondo il direttore del World Gold Council (la fonte più autorevole di statistiche sul mercato dell’oro) lo scorso anno la Cina ne ha comprato almeno altre 70 tonnellate. E secondo l’Ufficio doganale di Hong Kong lo scorso novembre di oro ne sono entrate in Cina quasi 102 tonnellate, ed altre 102 circa nell’aprile di quest’anno. A giudizio dell’Agenzia Reuters la Cina potrebbe concludere il 2012 con importazioni nette di oro per quasi 500 tonnellate. Il che significa, detto per inciso, che il governo cinese, con la segretezza che gli è consueta, e con la necessaria gradualità, sta cambiando in oro le sue gigantesche riserve in dollari.
Ma non è solo la Cina a comprare oro: molte Banche Centrali in passato avevano ceduto quote di riserve auree, ma dallo scorso anno il “trend” si è invertito. Ora anche varie Banche Centrali sono orientate a rafforzare le riserve in oro, e alcuni Paesi che hanno le riserve custodite all’estero cominciano a preoccuparsi di rimpatriarle. Abbiamo già riferito (vedi “la Finanza” novembre-dicembre 2010) di notizie secondo cui il cancelliere Merkel avrebbe richiesto indietro la quota delle riserve auree tedesche detenuta negli Stati Uniti, incontrando non poche difficoltà. E se la notizia è esatta, dovrebbe essere questo un campanello d’allarme per l’Italia che, come già accennato, ha anch’essa circa un terzo delle sue riserve auree custodite negli Stati Uniti, e nelle relazioni internazionali non ha certo il peso della Germania.
Ma per quanto riguarda il rimpatrio dell’oro l’ultimo recentissimo episodio è quello del presidente venezuelano Hugo Chavez, che ha nazionalizzato la produzione di oro (sinora in concessione a società private, con la possibilità di esportarne il 50%) ed ha ordinato il rimpatrio delle 211 tonnellate di riserve auree che nel 1988 e nel 1989 il governo venezuelano di allora aveva dato in garanzia a fronte di prestiti concessi dal Fondo Monetario Internazionale. Quel debito era stato cancellato da anni, ma l’oro era rimasto all’estero: il 59,9% in Svizzera, il 17,9% in Inghilterra, l’11,3% negli Stati Uniti ed il 6,4% in Francia.
Pressioni tedesche sull’Italia affinché venda il suo oro
Un ultimo esempio di come l’oro chi ce l’ha se lo tenga stretto: davanti all’ipotesi avanzata di inserire nell’attivo dell’EFSF (il Fondo salva Stati ) anche l’oro, la Bundesbank ha subito risposto picche, ed anche la Banca d’Italia, per la verità, ha avanzato mille riserve.
La Bundesbank il suo oro se lo tiene stretto, ma a quanto pare vorrebbe che l’Italia invece se lo vendesse. Secondo il quotidiano britannico “The Indipendent” infatti all’inizio di quest’anno era in atto una forte pressione tedesca affinché la Banca d’Italia mettesse sul mercato una parte delle sue riserve auree.
Qualche mese prima, a novembre 2011, il presidente della Commissione per l’Europa del Parlamento tedesco, Gunther Krichbaum, aveva affermato che “per ridurre il debito pubblico l’Italia deve mettere in vendita una parte delle riserve auree”. E Michael Fuchs, vicecapogruppo della CDU (il partito della Merkel) al Bundestag aveva detto ancor più brutalmente: “Gli italiani debbono mettere a posto i conti, quindi o portano a termine le privatizzazioni, oppure vendono le loro riserve d’oro”. Insomma: o cedete le ultime industrie pubbliche che vi sono rimaste (Eni, Enel, Finmeccanica) o cedete l’oro.
Questa volta è l’Italia che deve rispondere picche. Non si deve cedere né una sola industria, né un solo grammo d’oro. E semmai sarebbe necessario risolvere, una volta per tutte, il “pasticciaccio brutto” che la privatizzazione delle banche ha determinato nella titolarità delle quote del capitale della Banca d’Italia, ridando allo Stato quel che allo Stato è stato indebitamente tolto.