di CARLO MERCURI ROMA Professor Abravanel, rieccoci dunque a parlare della "spintarella", vecchio vizio italico. Dallo studio di Unioncamere dovremmo concludere di essere un Paese in cui la promozione sociale continua a fondarsi solo sulla "spintarella". E' davvero così? «Mi chiedo: che vuol dire "spintarella"? In America la metà dei posti di lavoro si ottiene in base a quella che gli americani chiamano recommendation, una segnalazione con referenze. Succede che un'azienda che decide di assumere qualcuno dica: ho bisogno di referenze sul tale e sul talaltro, sapere dove hanno lavorato prima, quali esperienze hanno maturato, quali studi hanno fatto». Messa così, è un fatto normale. Ma in Italia accade così? «No. In Italia dobbiamo distinguere tra il settore pubblico e il settore privato. Nel settore pubblico in Italia, al contrario dell'America dove si raccomanda qualcuno che si conosce per un posto di lavoro che si conosce, si raccomanda qualcuno che non si conosce per un posto che non si conosce. Da noi si usa dire: "scusa, ti mando questa persona; ti dispiace riceverla?". Questo modo di fare esisteva anche nel settore privato, ma con la crisi le aziende non possono più permettersi di assumere qualcuno che proprio non conoscono». I canali familiari-parentali sono ancora un veicolo di promozione importante, nel nostro Paese. «Sì, più al Sud e un po' meno al Nord. Ma in sostanza da noi vige un criterio poco meritocratico». A proposito di meritocrazia, lei ha scritto l'anno scorso un libro che ha ottenuto un grande successo, dal titolo appunto "Meritocrazia". Le chiedo dunque: perché in Italia c'è ancora una così scarsa cultura del merito? «Ci sono due grandi problemi. Il primo problema è che in Italia non abbiamo grandi imprese. I giovani laureati, negli altri Paesi dell'Occidente, vengono assunti dalle imprese medio-grandi. In Italia le imprese sono piccole, ci sono meno laureati che lavorano e quindi c'è più bisogno di raccomandazioni. Da noi ci si affida più alla conoscenza diretta che alla laurea». Il secondo problema? «Il secondo problema si lega al precedente ed è questo: all'estero la scuola è meritocratica. Se un giovane prende 100 e lode al liceo e poi il massimo dei voti all'Università è altamente probabile che sia un giovane bravo. In Italia, invece, ottenere il massimo dei voti all'Università di per sé vuol dire molto poco. Mi spiego meglio: all'estero se io sono un'impresa e assumo un laureato e questo laureato ha avuto buoni voti, questa è la migliore forma di raccomandazione che esista. Chi raccomanda il giovane è la sua Università. In Italia, invece, il sistema educativo non permette questo. Allora le piccole imprese che non possono affidarsi ai curricula ricorrono al "giro" familiare». E le grandi imprese, invece, che fanno?«Da noi le piccole imprese non diventano grandi. Non è come all'estero». Perché? «Perché la mancanza di talento nella maggior parte degli imprenditori fa sì che le imprese non crescano».Allora è un problema irrisolvibile, è come un cane che si morde la coda. «Sì. E vuole sapere perché? Perché in Italia esiste l'impresa familiare. E nell'impresa familiare italiana è più importante la famiglia che l'impresa. Vada a vedere che cosa ha fatto Marchionne non appena è diventato amministratore delegato della Fiat». Che ha fatto? «Ha liberato la Fiat dalla cultura non meritocratica che la pervadeva, per cui bisognava solo essere fedeli agli Agnelli per fare dei passi avanti in azienda. Lui ha detto: qua occorre essere bravi e i più bravi andranno avanti. Ma di Marchionne non ce ne sono molti...». C'è chi sostiene, professore, che la società italiana sia la società più ineguale del mondo occidentale. Lei è di questo avviso? «Certamente sì. Non solo sono di questo avviso, ma l'ho anche scritto nel mio libro: la società italiana è la più ineguale del mondo. Negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Svezia, l'ineguaglianza sociale è molto alta ma esiste un alto grado di mobilità sociale perché chi è povero ha la possibilità, grazie alla scuola, di risalire. Il signor Obama, per esempio, era figlio di gente afroamericana poverissima, ma ha avuto risultati ottimi a scuola; così è andato a Harvard ed è diventato Presidente degli Stati Uniti. Da noi un Obama non potrebbe mai esserci. Da noi la mobilità sociale è molto bassa. Da noi l'economia non cresce e la disuguaglianza aumenta».