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mercoledì 28 agosto 2013

Sarà la guerra in Siria a dare il colpo di grazia all’economia europea?


by Arnaldo Vitangeli

Francia, Uk e Usa sembrano non avere dubbi, il 21 agosto in Siria il regima baathista di Assad avrebbe usato massicciamente gas letali sui civili, passando la “linea rossa” stabilita dall’Occidente e dunque imponendo al “mondo libero” di rispondere con le armi.

I dubbi sulla veridicità di queste affermazioni sono molti, a cominciare dalle foto satellitari, scattate dai russi e consegnate all’Onu, che mostrerebbero come l’attacco chimico proverrebbe da una zona sotto pieno controllo dei ribelli, a immagini delle vittime civili fotografate un giorno prima della data del presunto attacco con le armi proibite. I precedenti poi non promettono nulla di buono; chi non ricorda la pantomima sulle famose armi di distruzione di massa di Saddam, della cui esistenza gli Usa affermavano di avere prove inconfutabili (rivelatesi poi dei consapevoli falsi) o delle fosse comuni usate come pretesto per attaccare la Libia e rivelatesi poi normali cimiteri?

Va detto peraltro che Assad dovrebbe essere davvero idiota per utilizzare, proprio ora che sta vincendo su tutti i fronti e all’indomani di una possibile conferenza di pace, gas letali sui civili siriani in quella che la stampa ha spesso descritto come una lotta del popolo contro il dittatore ma che, nei fatti, è una guerra per procura fatta da mercenari stranieri pagati da Arabia Saudita e Qatar e addestrati e armati da Usa, Francia e UK, i quali, peraltro, se andassero al potere applicherebbero una teocrazia islamica, nemica mortale degli stessi stati Paesi Occidentali che l’hanno armata.

Tuttavia secondo alcuni, tra cui l’autorevole blog corrieredellacollera.com di Antonio de Martini, dietro i tamburi di guerra potrebbe non esserci una vera intenzione di attaccare la Siria, quanto la volontà di arrivare alla conferenza di pace con il “colpo in canna”, mettendo sotto pressione psicologica il nemico e quindi rendendolo più malleabile.

Qualora ci fosse, comunque, un attacco alla Siria potrebbe avere sostanzialmente due tipologie: guerra lampo o conflitto su ampia scala.

La prima ipotesi è quella che le cancellerie occidentali starebbero prendendo in considerazione, ossia bombardamenti navali, (da debita distanza) su alcuni obbiettivi militari. Un’operazione del genere avrebbe poche conseguenze da un punto di vista del conflitto in corso e sarebbe sostanzialmente un atto simbolico, in quanto (come sottolineato dallo stesso de Martini), il regime potrebbe spostare i suoi aerei e armamenti in Paesi alleati dell’area, minimizzando gli effetti del bombardamento.

Un simile attacco tuttavia consentirebbe a Obama di distrarre l’opinione pubblica americana dagli insuccessi della sua politica estera in Medio Oriente e di dare un segno di forza. Sarebbe in pratica sostanzialmente uno spot il cui costo economico, limitato, risulterebbe totalmente a carico degli Usa.

Tutto questo, ovviamente, a patto che la Siria non reagisca, ma laddove gli aerei di Assad portassero una contro-offensiva su qualche base occidentale dell’area (ad esempio Cipro) si arriverebbe a un immediato e imprevedibile allargamento del conflitto, con conseguenze economiche disastrose, specialmente per la comatosa economia europea. Damasco, infatti, può contare su due potenti alleati nella regione, Hezbollah e l’Iran, ed è quest’ultimo Paese il vero obbiettivo degli americani che, attraverso la costruzione in laboratorio della “rivolta” siriana, si vuole colpire. Dunque in caso di un allargamento del conflitto che coinvolga anche Teheran lo scenario sarebbe quello di una guerra lunga, difficilissima e costosissima.

Ma oltre ai costi, umani e materiali, del conflitto (costi che l’Europa e l’Italia in particolare forse non sarebbero chiamati a pagare, se come è auspicabile non partecipassero direttamente alle operazioni belliche ma si limitassero a fornire basi e supporto logistico) ci sarebbe per il vecchio continente (Italia in primis) un inevitabile quanto gravoso costo indiretto, ossia l’impennata del prezzo del greggio.

L’Europa infatti dipende in buona parte dal petrolio mediorientale per alimentare le sue industrie (che già ora sono preda di una crisi drammatica) così come per i consumi energetici dei suoi cittadini (anch’essi in crisi di liquidità e fortemente impoveriti) e l’Italia in particolare è uno dei paesi meno indipendenti energeticamente e più colpiti dalla crisi. Un forte aumento del prezzo del greggio, che potrebbe durare anni, colpirebbe in maniera durissima l’economia del nostro Paese.

L’aumento del costo del petrolio, infatti, renderebbe, in un contesto economico già difficilissimo, meno competitive le nostre merci, contribuendo alla chiusura di imprese e all’aumento della disoccupazione, la quale, unita ai maggiori costi per i cittadini per benzina e altri prodotti petroliferi, diminuirebbe la capacità di spesa della gente, ossia la domanda aggregata. La diminuzione dei consumi porterebbe alla chiusura di altre aziende, dunque a nuovi disoccupati e a un’ulteriore diminuzione della possibilità di acquistare beni e servizi nel più classico dei circoli viziosi. In pratica, a livello economico, una “tempesta perfetta” su una nave che già ora sta a galla per miracolo.

Gli Usa, dal canto loro, non sono affatto ansiosi di una nuova guerra mediorientale, essendo stato il costo di quella irachena esorbitante. Secondo uno studio della Brown University infatti la seconda guerra in Iraq sarebbe costata circa 6000 miliardi tra i costi diretti, i costi per assistenza medica dei feriti e invalidi e gli interessi sul debito pubblico emesso per finanziare le operazioni belliche. In pratica 100 volte i 60 miliardi preventivati da Bush prima dell’attacco. Una guerra totale in medio oriente, che rischia di innescarsi con l’attacco alla Siria, avrebbe costi molto maggiori, e insostenibili per un Paese come gli Usa, gravati da un debito pubblico enorme.

Eppure ancora una volta è nell’economia che vanno trovate le ragioni dell’atteggiamento bellicoso degli americani, e in particolare nella politica di “quantitative easing” promossa dalla FED per dare respiro agli Usa colpiti dall’esplosione della bolla finanziaria.

Per sostenere l’economia, infatti, la banca centrale americana ha iniziato a stampare una immensa quantità di dollari da immettere nel sistema. Perché il gioco funzioni, tuttavia, è necessario che il dollaro mantenga il suo ruolo di moneta internazionale, ruolo che oggi è garantito esclusivamente dal fatto che le transazioni mondiali di greggio avvengono con la valuta americana. Qualora questo privilegio terminasse la montagna di dollari stampati dalla FED sarebbe soggetta a una fortissima svalutazione, specialmente nei confronti dell’euro che, differentemente dal dollaro, non viene stampato a gogò per tamponare i debiti.

E’ quindi ancora una volta il ruolo internazionale del dollaro e la politica monetaria degli Usa alla base dell’instabilità globale e della minaccia di nuove e terribili guerre.