Pubblichiamo un post di Stefano Capaccioli, dottore commercialista e co-fondatore di assob.it, associazione per lo sviluppo delle tecnologie blockchain –
Avevo scritto qui che le plusvalenze sui bitcoin erano soggette a tassazione quali redditi diversi da capitale e non ho cambiato idea. L’Agenzia delle Entrate ha pubblicato la Risoluzione 72/E del 2016 considerando le criptovalute alla stregua di banconote estere.
La frase su cui tutti fantasticano, ipotizzando l’esclusione da tassazione è: “Per quanto riguarda, la tassazione ai fini delle imposte sul reddito dei clienti della Società, persone fisiche che detengono i bitcoin al di fuori dell’attività d’impresa, si ricorda che le operazioni a pronti (acquisti e vendite) di valuta non generano redditi imponibili mancando la finalità speculativa”.
Cerco di spiegare in cosa consiste questa affermazione e perché non sono d’accordo. Il Fisco italiano ha operato la scelta di tassare solo le plusvalenze, icapital gain, su valute estere acquistate o detenute per finalità d’investimento. Al fine di semplificare il Legislatore ha effettuato la scelta di considerare tenute per finalità speculative solo le valute estere cedute a termine o rivenienti da depositi o conti correnti. Per evitare, poi, di tassare importi non significativi sono escluse da tassazione le plusvalenze, qualora la giacenza complessiva di tutti i depositi e conti correnti in valuta intrattenuti sia inferiore a 51.645,69 euro per almeno sette giorni lavorativi continui.
La decisione di assimilare i bitcoin a valute estere ha portato al sillogismo: non ci sono conti corrente né deposito e quindi utilizzo non è imponibile.
Non condivido tale interpretazione:
1 – Il bitcoin non è moneta, non è valuta né può esserlo: è un mezzo di pagamento semplice su base volontaria (Sentenza C-264/14).
2 – Se proprio vogliamo riflettere su bitcoin e moneta posso dire che è moneta merce senza l’oro, è moneta a corso forzoso senza Stato ed è moneta bancaria senza banca. Fondamentalmente è qualche cosa di diverso, innovativo e che non può essere compreso semplicisticamente nelle categorie conosciute.
3 – La normativa fiscale italiana non definisce il concetto di moneta e di valuta estera.
4 – L’assimilazione tra bitcoin e valuta estera contrasta con i principi generali.
Il rischio è che si ingeneri la convinzione che le plusvalenze derivante dall’utilizzo di bitcoin non siano imponibili.
Io ritengo, e ne sono convinto, che le plusvalenze derivanti dall’utilizzo di bitcoin siano redditi diversi di natura finanziaria perché non sono valute estere ma, a mio avviso, sono assimilabili a titoli non rappresentativi di merce.
Ad ulteriore riprova, la Risoluzione assimila gli operatori che svolgono professionalmente l’attività di acquisto e vendita di monete virtuali ai cambiavalute, ma tale accostamento non tiene conto delle evoluzioni a livello europeo (ne avevo parlato qui) che introducono:
1 – La definizione di valuta virtuale “intende una rappresentazione digitale di valore che non viene emesso da una banca centrale o da un’autorità pubblica e non necessariamente collegato a una moneta a corso legale, ma è accettato da persone fisiche o giuridiche come mezzo di pagamento e può essere trasferita, immagazzinata o scambiata elettronicamente”.
2 – La definizione di operatori che svolgono professionalmente l’attività di acquisto e vendita di monete virtuali (Exchanger), in aggiunta alle categorie dei soggetti destinatari che comprende i cambiavalute.
Infine, contrariamente a qualche commentatore, anche l’European Banking Authority non fa questo accostamento, dato che nella sua Opinione sulle Valute Virtuali scrive (punto 18): “Questo documento riguarda il fenomeno comunemente denominato “monete virtuali”. Come sarà evidente, l’uso del termine “moneta” è ingannevole per molte ragioni”.
Per questi motivi, ritengo che il cambio di valuta virtuale nei confronti di valuta a corso legale rilevi fiscalmente (plusvalenza o minusvalenza), mentre l’utilizzo come mezzo di pagamento rileva solo in alcuni specifici casi.
Twitter @s_capaccioli
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