Circa 400.000 macchine per il mining Bitcoin fuori servizio nel giro di pochi giorni.
Un calo improvviso dell’hash rate globale, pari a circa −8%, seguito da un recupero altrettanto rapido.
E, sullo sfondo, la Cina. Di nuovo.
Quello che sta accadendo nello Xinjiang non è un incidente isolato. È l’ennesima manifestazione di un modello che si ripete: repressione, tolleranza tacita, nuova stretta.
Bitcoin reagisce. Il sistema assorbe. Il mercato osserva.
Questo articolo serve a capire cosa è successo davvero, perché conta e cosa ci dice sul rapporto tra Stati e infrastrutture decentralizzate.
Il dato grezzo: 100 EH/s in meno
Il 14 dicembre, Kong Jianping — ex presidente di Canaan Technology, uno dei principali produttori mondiali di ASIC per il mining — scrive su X che gli impianti di mining nello Xinjiang stanno chiudendo uno dopo l’altro.
Il giorno successivo aggiunge un numero chiave:
−100 EH/s di hash rate in 24 ore.
Facendo una stima prudente, con una potenza media di 250 TH/s per macchina, il risultato è netto:
almeno 400.000 miner spenti.
CoinWarz conferma la sequenza:
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7 dicembre: ~1,2 ZH/s
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15 dicembre: ~900 EH/s
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16 dicembre: ritorno sopra 1,23 ZH/s
Il sistema, ancora una volta, si riequilibra.
Ma il punto non è la resilienza di Bitcoin. Quella è nota.
Il punto è perché succede sempre lì.
Xinjiang: nodo energetico, nodo politico
Nel novembre 2025, Reuters parlava apertamente di un ritorno del mining in Cina.
Xinjiang e Sichuan di nuovo attivi.
Quota stimata: 14% dell’hash rate globale. Terzo polo mondiale.
Poi, a fine mese, la svolta:
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riunione della Banca Popolare Cinese
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coinvolte 13 agenzie statali
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messaggio chiaro: rafforzare la repressione delle attività crypto
Nessun comunicato ufficiale sulle chiusure.
Solo segnali.
Solo hash rate che scompare.
È il classico approccio cinese: assenza di annunci, presenza di effetti.
Un déjà-vu regolatorio
La storia è ciclica.
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2019: la Cina controlla oltre il 75% della potenza di mining globale.
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2021: il mining viene ufficialmente inserito tra le attività “da eliminare”.
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Mongolia Interna, Sichuan, Yunnan, Qinghai: chiusure a catena.
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Quota cinese: quasi zero.
Bitcoin perde il 9%, poi recupera.
La difficoltà si aggiusta.
I miner migrano.
Tecnologicamente, il sistema funziona.
Politicamente, il messaggio è un altro: lo Stato non accetta infrastrutture monetarie che non controlla.
Stablecoin, sovranità e linea rossa
Il 2025 sembrava segnare un cambio di passo.
A Hong Kong entra in vigore lo Stablecoin Regulation Act.
Licenze. Regole. Cornice istituzionale.
Ant Group e JD.com pianificano stablecoin ancorate allo yuan.
Poi, a ottobre, lo stop.
Secondo il Financial Times, la motivazione è esplicita:
consentire a soggetti privati di emettere valuta minaccia la sovranità monetaria.
Il mining rientra nello stesso schema concettuale.
Non è solo energia.
È potere monetario distribuito.
Perché questa notizia conta davvero
Il punto non è se 400.000 macchine siano state davvero spente tutte insieme.
Il punto è che Bitcoin continua a dipendere da decisioni statali locali, pur essendo globalmente distribuito.
Ogni volta che la Cina chiude:
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l’hash rate scende
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la difficoltà si adatta
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altri Paesi assorbono capacità
Bitcoin sopravvive.
Ma il costo geopolitico resta.
Un equilibrio instabile
La Cina non ha mai davvero lasciato il mining.
Ha solo imparato a tollerarlo a fasi alterne, mantenendo l’ambiguità come strumento di controllo.
Bitcoin, dal canto suo, dimostra ancora una volta di essere antifragile.
Ma non neutrale.
La domanda aperta non è se il network reggerà.
Lo farà.
La vera domanda è:
quanto a lungo il mining globale continuerà a concentrarsi dove l’elettricità costa poco, ma la certezza giuridica vale zero?